A.C. 1018-A
Presidente, colleghe, colleghi, non concordo, com'è prevedibile, con quanto è appena stato detto. Penso che oggi noi stiamo discutendo di un provvedimento che è di fatto un travestimento, un'operazione mimetica di una misura il cui obiettivo ultimo è effettivamente limitare la libertà di culto di alcune confessioni religiose e che viene mascherata da asettica misura di carattere urbanistico. Partirei, dunque, dal vestito su cui questa proposta di legge viene cucita, ovvero il codice del Terzo settore, in particolare l'articolo 71.
L'articolo 71 prevede una disciplina agevolativa a vantaggio degli enti del Terzo settore in termini di deroghe al diritto comune circa l'utilizzo dei locali in cui svolgono le loro attività. Significa, sostanzialmente, che ogni ente del Terzo settore può svolgere attività, purché non di tipo produttivo, da articolo 71, nei locali del Terzo settore, a prescindere dalla compatibilità di questa attività stessa con la cosiddetta destinazione di utilizzo del locale in questione.
Quindi la ratio di questa norma, il design iniziale del codice del Terzo settore, di questo vestito, va nella direzione di facilitare gli enti del Terzo settore nell'utilizzo degli spazi, perché si riconosce il valore sociale loro e delle loro attività, che possono anche essere per legge, per prassi attività di culto. Pertanto è inattuale il riferimento alla pronunciazione del Consiglio di Stato del 2013, che è superata dal codice del Terzo settore stesso che è del 2017 e che esclude le sole attività produttive dall'articolo 71.
Le attività di culto non sono certamente attività di interesse generale, ma possono rientrare all'interno delle attività degli enti del Terzo settore, che possono essere spesso di ispirazione religiosa o comprendere momenti di preghiera all'interno delle loro attività. Quindi, il codice di settore immagina questa maggiore libertà perché riconosce e vuole massimizzare l'utilità sociale degli enti del Terzo settore. Solidarietà e sussidiarietà sono le forme bellissime del volontariato, dell'associazionismo, delle forme di aggregazione, delle reti delle cooperative, forme che, in realtà, come dicevo, spesso hanno ispirazione religiosa, spesso includono momenti di preghiera. Io vengo dal Veneto, ed è una realtà che queste forme le conosce molto bene e le sa anche valorizzare. Ebbene, la proposta di legge che discutiamo oggi ha un design completamente opposto, va nell'altra direzione, rafforza la potestà pubblica e danneggia la libertà degli enti del Terzo settore e cerca di fare, in qualche modo, delle distinzioni. Perché? Il perché, io credo, vada ricercato nella stoffa di cui è fatto questo travestimento, l'intenzione, la sostanza che c'è dietro, oltre alle varie riformulazioni che ci sono state. La stoffa io l'ho intravista in quella che era la formulazione iniziale di questa proposta di legge e nella relazione che è allegata ad essa, che è molto esplicita.
Visto che abbiamo un po'di tempo, che è breve, possiamo leggere la formulazione iniziale, come la maggioranza ha quindi pensato, prima di venire rimessa in riga da eminenti costituzionalisti, questa norma. Si diceva che le disposizioni all'articolo 71 del codice del Terzo settore non si applicano alle associazioni di promozione sociale che svolgono, anche occasionalmente, attività di culto di confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato non sono regolati sulla base di intese. Durante l'attività conoscitiva in Commissione si sono accumulate, evidenziati da tutti gli autorevolissimi auditi, le numerosissime ipotesi di incostituzionalità di questa idea iniziale. Era incostituzionale perché faceva delle distinzioni tra APS in generale e APS che svolgono attività di culto, era incostituzionale perché faceva delle distinzioni tra attività di culto di confessioni religiose con o senza intesa - noi sappiamo che le due principali confessioni senza intesa sono gli evangelisti e la confessione islamica -, una discriminazione che è già stata censurata più volte dalla Corte costituzionale e in almeno due occasioni riguarda proprio leggi regionali di contenuto urbanistico. Cito la sentenza n. 52 del 2016: l'uguale libertà, riconosciuta a tutte le confessioni religiose, non può essere condizionata dalla sottoscrizione delle intese, menzionate nel 3 comma, che hanno lo scopo di regolare i rapporti con lo Stato e non quello di limitarne l'uguale libertà. Era incostituzionale perché diceva, anche occasionalmente, con una formula giuridicamente debolissima, arbitraria e di difficile definizione, che cos'è l'occasionalità di un momento di preghiera? Fare una preghiera nel contesto di un'attività culturale rende un luogo di culto, si configura come attività di culto? Questo non era chiaro, tanto che era stato segnalato come incostituzionale, perché subordina l'esercizio di culto alla presenza di elementi oggettivi di tipo urbanistico o soggettivi di carattere legislativo. Incostituzionale perché è evidentissimo, colleghi, che c'è un bersaglio. Il bersaglio appare nelle prime sei righe della relazione introduttiva, con un'attenzione esplicita ed esclusiva ad una sola confessione religiosa. Citiamo, testualmente, di nuovo: per i proponenti, il design di apertura dell'articolo 71 del codice del Terzo settore viene utilizzato come grimaldello dalle comunità islamiche per insediarsi nel territorio italiano creando moschee, madrase, nella completa indifferenza delle istituzioni, in spregio alla legge e nella sostanziale impossibilità di intervenire da parte delle Forze dell'ordine.
Sostanzialmente, rispetto al modello, al design più bello di tutti, che è quello della nostra Costituzione, questa proposta di legge, nella sua formulazione iniziale, era uno scarabocchio, era fatta davvero troppo, troppo male. Presentata nella scorsa legislatura, ripresentata identica in questa, andava corretta in qualche modo, era evidente dall'attività conoscitiva che andava fatto qualcosa, quindi arriviamo alla formulazione odierna.
Quella che discutiamo oggi, fatto salvo quanto previsto dalle intese, rimane, di fatto, l'aspetto di discriminazione tra confessioni che hanno sottoscritto un'intesa e confessioni che non l'hanno fatto. L'articolo 71, pertanto, non si applica alle APS che praticano attività di culto, lo decideranno i Ministeri competenti con dei decreti ministeriali. Questo sostanzialmente si dice, si demanda a un decreto ministeriale, poi si elencano alcuni elementi di cui i Ministeri dovrebbero tenere conto - le esigenze di sicurezza e accessibilità, impatto sul tessuto urbano, concentrazione oraria e giornaliera dell'afflusso di persone -, tutte cose notoriamente facilmente misurabili nella quotidianità delle attività delle comunità religiose e culturali. Mi sembra veramente evidente che queste sono toppe su toppe, sono giri di parole, sono ricerche spasmodiche di una formula che annacqui a sufficienza da superare il tanto odiato test di costituzionalità. La stoffa, alla fine, però rimane quella: bisogna togliere il grimaldello alle comunità islamiche che si aggregano in forma di APS e che svolgono e organizzano, tra le altre cose, anche le attività di culto. E questo è il punto politico, al di là delle considerazioni giuridiche delle riformulazioni, che penso vada affrontato alla radice, che non vada travestito da mera questione urbanistica come si è tentato di fare in Commissione e anche qua in Aula, di fatto.
Il tema reale da cui questa legge prende le mosse è il fatto che le religioni, che non hanno sottoscritto accordi o intese con lo Stato, hanno effettivamente difficoltà a trovare luoghi di culto nel nostro Paese. Quando si tratta della comunità islamica subentrano poi alcuni fattori: la diffidenza generalizzata, gli impedimenti burocratici, ci sono tante cose che portano a un'effettiva difficoltà di accesso oggettivo a nuovi luoghi di culto. Anche se - ce l'hanno detto i rappresentanti del Forum del Terzo settore in audizione -, cito di nuovo: non rileviamo il fenomeno indicato dai proponenti come largamente diffuso nelle nostre realtà - quindi, stiamo parlando di un qualcosa che è molto più rarefatto di quello che si vuole far credere -, è vero che, alcune rappresentanze o soggetti di varie confessioni religiose, hanno adottato la normativa del Terzo settore per trovare un escamotage all'interno di questa regola, forzando di fatto una lettura, un'interpretazione. Una soluzione, questa, che hanno trovato per cercare di essere in qualche modo all'interno di un'interpretazione della regola, perché, a monte, le regole, per le confessioni senza intesa, sono molto complesse e di difficile applicazione. Questo non fa sì che quelle confessioni smettano di esistere. Intese o non intese quelle comunità religiose esistono, sono reali e forse bisognerebbe lavorare per accompagnare le più deboli ad una pienezza identitaria consona ai dettami della legge, anzi, diciamola meglio, le persone che si riconoscono in quelle confessioni, pur senza intesa, hanno diritto anche loro, libere ed eguali davanti alla legge, di professare liberamente la loro religione in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico o in privato il culto (articoli 8 e 19 della nostra Costituzione). Il nostro compito, dunque, sarebbe quello di vedere il vulnus che effettivamente esiste nella normativa attuale e chiederci come possiamo risolverlo e dovremmo farlo consapevoli dei tempi in cui viviamo. La conoscenza, il confronto, il dialogo tra culture diverse saranno sempre di più delle risorse indispensabili per affrontare le complessità in cui già siamo immersi, non è una cosa futura ma una cosa presente.
La risposta potrebbe essere quella di un Paese veramente laico, libero e democratico, che, quindi, risponde alla sfida dell'integrazione, oppure potrebbe essere quella di un Paese che sceglie di ostacolare la formazione di piccole nuove moschee nei nostri territori e che sceglie, dunque, di privarsi di interlocutori preziosi. In questo momento storico, avere rapporti con le comunità islamiche che si aggregano principalmente attorno ad identità nazionali passa anche inevitabilmente dall'avere un rapporto con gli imam. Non me lo sono inventato, io ce l'ha spiegato la comunità di Sant'Egidio. Dialogo e incontro, dunque, non divieto, e non è vero che la formulazione attuale della proposta di legge è chiara e puntuale in questo senso e incentivi la regolarizzazione di queste realtà. Mi sembra semplicemente un'altra formulazione di quello che era l'intento e la solfa iniziale, un divieto.
Quindi, le comunità fisiche organizzate in dialogo con le istituzioni, con il territorio e con le altre comunità religiose sono un elemento prezioso per evitare le radicalizzazioni dettate da spinte della storia che sono più grandi di questa proposta di legge. Togliere i luoghi di culto significa accompagnare in silenzio le giovani generazioni di musulmani alle forme estreme del culto sul web. Lo sanno bene le comunità cattoliche che ogni giorno lavorano con queste comunità islamiche, sull'impulso, peraltro, del documento di Abu Dhabi di Papa Francesco. Perché dovremmo ostacolare questo lavoro che, secondo me, è prezioso? Questo non è chiaro. Consideriamo la realtà del nostro Paese. Noi non siamo la Francia, dove ci sono grandi periferie, megalopoli dove intere comunità di stranieri sono sostanzialmente ghettizzate. Le nuove conformazioni sociali, culturali e religiose di altre confessioni religiose e di stranieri, in generale, nascono, crescono e si aggregano all'interno dei nostri quartieri. Noi dovremmo sforzarci di non concepire questa cosa come un problema o un motivo di tensione ma di considerarla come quello che effettivamente è, cioè una risorsa che finora ha consentito, dove si è voluto farlo ovviamente, di avviare dialoghi strategici e interventi che sono stati sia pacifici che pacificatori. Il nostro Paese ha una ricchezza unica e sarebbe anche ora di valorizzarla: sono le risorse umane, sociali, di fede ed etiche che vogliono lavorare, coerentemente con il momento storico, a una sempre maggiore integrazione. Sono proprio loro a dirci che hanno un disperato bisogno di interlocutori. Tutto ciò che si fa nella direzione di ammorbidire i rapporti, di darvi contenuto e prospettiva evita le tensioni, evita le radicalizzazioni, evita quel tuffo nell'incognito che è la violenza e rafforza la coesione sociale. Se noi ostacoliamo le procedure per ottenere regolarmente e in trasparenza luoghi di culto, rimane poi soltanto il web, il virtuale che diventa reale nel momento in cui manca la comunità, in cui manca un luogo fisico. Se noi non vogliamo regalare le giovani generazioni nate e cresciute in famiglie di cultura islamica alle fascinazioni deculturate dell'Islam, allora dobbiamo impostare un design, con la nostra attività legislativa, che si perfezioni aiutandoli a comprendere e a osservare la legge italiana in maniera costruttiva, non strappando fili ma, appunto, cucendo relazioni. Di questa stoffa io vorrei che fossero fatte le nostre discussioni, più simile a quella della nostra Costituzione e meno simile alla chiacchierata da bar quale è, di fatto, la relazione con cui viene introdotta questa proposta di legge. Quello che si sta cucendo sul codice del Terzo settore è un vestito brutto e disfunzionale, che viene attaccato, in modo posticcio, a qualcosa di bello che è, invece, il codice del Terzo settore, a cui noi non possiamo che opporci perché non solo rischia di non produrre effetti ma, se ne produrrà, rischia di fare danni.